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Gli animali non distinguono tra ambiente e medicina.

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In una foresta, tutto è relazione.
 
Non esistono ospedali, eppure ovunque avviene guarigione.
 
Gli animali non distinguono tra ambiente e medicina.
 
Non hanno bisogno di istruzioni: si affidano a una forma di intelligenza che passa dal corpo, dalla memoria biologica, dalla relazione continua con il mondo.
 
Un elefante si cosparge di fango per proteggersi dai parassiti. Un pappagallo ingoia argilla per neutralizzare le tossine ingerite con frutti acerbi.
 
Una scimmia tampona le ferite con resina vegetale.
 
Questi gesti non derivano da un sapere appreso, ma da un riconoscimento.
 
Non c’è calcolo, non c’è distacco, c’è una risposta incorporata che si attiva attraverso i sensi.
 
La scienza ha chiamato tutto questo zoofarmacognosia: la capacità degli animali di orientarsi tra sostanze curative presenti nell’ambiente.
 
Ma il termine non riesce a restituire la complessità della cosa che descrive.
 
... Come se bastasse una parola a contenere una danza millenaria tra corpo e mondo...
 
Perché non è solo questione di riflessi.
 
Non è istinto nel senso riduttivo in cui spesso viene inteso.
 
È piuttosto un dialogo. Un sapere che attraversa la specie, si trasmette nel tempo, si affina in relazione al contesto.
 
Un sapere che non si deposita nei libri, ma si conserva nei tessuti, nei gesti, nelle abitudini invisibili.
 
Il corpo, in natura, non ragiona in astratto.
 
Non elabora ipotesi. Non separa. Sente. Riconosce le sostanze compatibili, rifiuta quelle nocive. Traduce ogni variazione in una reazione.
 
È un sistema di ascolto ininterrotto.
 
Nella civiltà contemporanea, invece, l’idea di salute si è progressivamente allontanata da questo principio.
 
È diventata qualcosa da misurare, da delegare, da esternalizzare. L’attenzione si è spostata dalla percezione alla prestazione, dal contatto alla teoria.
 
Il corpo, più che un interlocutore, è diventato un oggetto da analizzare e correggere.
 
Ogni sintomo viene trattato come un’anomalia, ogni disagio come un errore da eliminare.
 
Eppure, il sintomo è spesso un messaggio. Una forma di comunicazione, e la comunicazione, per essere efficace, ha bisogno di essere ascoltata non solo silenziata.
 
La pelle è forse il luogo in cui questa trasformazione è più evidente. Un tempo, era un sensore, una superficie viva, permeabile, capace di ricevere informazioni complesse: temperatura, umidità, presenza di sostanze utili o dannose.
 
Nelle specie animali, è ancora così.
 
Il contatto con il terreno, con il fango, con la polvere non è solo protezione: è dialogo.
 
Ogni granello trasporta segnali biochimici.
 
Ogni immersione nella materia è un aggiornamento del sistema percettivo.
 
Nella nostra cultura, invece, la pelle è stata progressivamente azzittita. Coperta, sterilizzata, imbalsamata.
 
Trattata come superficie estetica non più come interfaccia conoscitiva.
 
Non le si chiede più di sentire ma solo di apparire.
 
È in questa disconnessione che si produce una certa fragilità.
 
Una medicina che interviene con enorme precisione, ma sempre più in ritardo, perché il contatto quotidiano è venuto meno.
 
Non si tratta di rifiutare la scienza — al contrario: la scienza è uno strumento straordinario — ma di integrarla con forme di conoscenza dimenticate, depotenziate, ma ancora accessibili.
 
Ogni ecosistema sano possiede un proprio sistema immunitario distribuito.
 
Nella foresta, la salute non è mai una questione individuale.
 
Una pianta in stress emette segnali volatili che le altre captano.
 
Alcuni animali regolano la proliferazione di altri.
 
I batteri nel suolo aiutano a decomporre sostanze nocive e a generare nutrienti.
 
È un’intelligenza collettiva, diffusa, relazionale.
 
Non ha un centro, ma funziona.
 
E funziona proprio perché ogni organismo partecipa, ascolta, risponde.
 
In questo senso, la medicina non è solo una disciplina, ma un’attitudine, un modo di stare al mondo.
 
Non sempre serve una pillola: spesso basta una variazione di ritmo, una camminata nel bosco, una modifica nel respiro, un’immersione in un ambiente non antropizzato.
Sono cose piccole, ma cariche di effetto.
 
Non si tratta di romanticismo ecologista, ma di neurobiologia, di immunologia, di chimica ambientale.
 
Lo dimostrano sempre più ricerche: l’esposizione alla biodiversità, anche per pochi minuti al giorno, modifica la composizione del microbiota, regola il sistema nervoso, migliora l’umore.
 
La “natura” non è altrove: è codice condiviso.
 
Forse è proprio questo che abbiamo bisogno di ricordare.
 
Non per nostalgia di un passato selvaggio, ma per ricostruire un presente più intelligente.
 
Non si guarisce separandosi.
 
La salute è un campo di relazione, è ciò che accade quando il corpo trova il suo posto all’interno di un contesto che lo riconosce e lo sostiene.
 
Un animale che si rotola nella polvere non si limita a proteggersi. Sta leggendo l’ambiente.
 
Sta aggiornando il suo sistema sensoriale.
 
Sta, in un certo senso, parlando con la terra.
 
E la Terra risponde.
 
 
 

Osteopatia26

Fabrizio Renzoni osteopata D.O.m.R.O.I. Tessera n. 4727

Fano PU CAP 61032 VIA G. Gabrielli N 12/A

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